La popolarità del cupping ha subito una vera impennata grazie all’atleta olimpionico Michael Phelps durante le Olimpiadi del 2016 a Rio de Janeiro. Le immagini del nuotatore statunitense con cerchi rossi sul corpo, risultato della pratica di cupping, hanno catturato l’attenzione dei media e del pubblico. Questa esposizione ha generato un enorme interesse verso questa tecnica millenaria, portando il cupping all’attenzione globale come una possibile strategia per il recupero fisico e il miglioramento delle performance sportive.

Anche oggi, la normalità è quella di vedere i pazienti ricoperti di segni più o meno rossi, tendenti al nero se l’applicazione del cupping è durata più di 3 minuti, dopo che è stata eseguita la tecnica.
Ma è davvero necessario lasciare questi segni, che sono veri e proprio ematomi (lividi) sulla pelle?

Come sappiamo il cupping agisce a livello fasciale, dove scorrono tra le altre strutture vasi venosi e linfatici. L’effetto della pressione negativa e del vuoto creato dalla coppetta è quello di muovere il sangue e “richiamarlo” verso la zona di applicazione, ma in realtà questo è un effetto secondario rispetto a quello di stimolare i recettori presenti nella fascia, allungandoli e dando così un input di allungamento e rilassamento fasciale, che permette per via riflessa di far rilassare anche la muscolatura.
Ne consegue che per ottenere questo effetto, il più importante, non è necessario applicare la coppetta per più di un minuto alla volta, e nemmeno creare una forte pressione negativa all’interno della coppetta sollevando la pelle in maniera quasi dolorosa per il paziente.

Gli ematomi iniziano a consolidarsi, dovuti alla stasi venosa sanguigna e rottura di capillari, appunto a seguire dal minuto di applicazione statica della coppetta arrivando a diventare neri dopo 3 minuti di applicazione. Quando si arriva a questo stadio la guarigione può durare giorni ed essere esteticamente poco apprezzabile da parte di alcuni pazienti.
Inoltre la rottura capillare paradossalmente potrebbe remare in direzione opposta allo scopo della tecnica, creando “mini lesioni” fasciali e capillari e non favorendo il corretto allungamento ricercato e per cui ci sono maggiori evidenze scientifiche a supporto di questa tecnica.